IN EXTREMIS
 
Gennaio 2021 Giugno 1951 Maggio 1969 Marzo 1983
Ottobre 1975 Luglio 1993 Aprile 1968 Settembre 2021
Luglio 1966 Luglio 1969 Agosto 1980 Marzo 1970
Agosto 1969 Aprile 1975 Maggio 1980 Settembre 1968
Aprile 1978 Gennaio 2019 Dicembre 1963 Ottobre 2023
Luglio 2022 Dicembre 2011 Luglio 2023 Agosto 1997
Ottobre 2022 Settembre 2023 Novembre 2023 Gennaio 2024
Settembre 2001 Novembre 1985 Marzo 1982 Giugno 2023
Marzo 1848 Agosto 2034 Dicembre 2023 Marzo 2024
Maggio 1974 Febbraio 2024 Agosto 2019 Aprile 2024
Ottobre 1978 Settembre 1974 Settembre 1969 Aprile 1971
Giugno 1966 Febbraio 1971    
SIPARIO APPENDICE POSTFAZIONE ANTEPRIMA
Dicembre 2020
Solo ora vengo a sapere che il mio caro amico G. è morto in Madagascar di Covid. La sua piantagione di moringa, superfood del nuovo millennio, non aveva dato i frutti sperati. Viaggiava verso sud da Ambilobe per trovare un altro campo dei miracoli. Il suo percorso, come si dice oggi, è sempre stato accidentato. Quando si ritirano, le grandi mareggiate lasciano devastazione e detriti sulla spiaggia. Avevamo studiato insieme per diventare agenti di viaggio e lui lo diventò a suo modo, poco dopo la maturità. La prima mossa fu portare, da una breve puntata in Oriente, grandi quantità di morfina e di cercare di rivenderla quasi per gioco, pensando di non trovare dietro l’angolo le minacce di morte degli spacciatori professionisti. Il seguito dell’avventura è in parte nelle lettere dei primi anni settanta che ho conservato. Da Kabul. Da Kathmandu. Da Bangkok. Da Bombay, dove aveva in programma di tornare, nel quartiere di Colaba, per raccontare la vita vissuta, le storie di naufragi e di follie, di candele e siringhe, nelle stanze di piccoli hotel per junkies. Da Agelat, nel deserto libico, dove in jeep trasportava avanti e indietro da Tripoli gli operai di una grande azienda italiana, da tempo morta e sepolta. Da Gavirate, sulle sponde del lago di Varese, dove don Gino Rigoldi l'aveva parcheggiato con altri ospiti, nella villa di un ingegnere dell'Euratom, dotata di uno sconfinato giardino e decine di pregiate bottiglie in cantina. E da dove fu prudenzialmente allontanato per spaccio di muffa bianca dei muri, scientificamente nitrato di potassio, prima che gli infinocchiati potessero dargli una lezione. Aveva ricevuto in dono molti talenti e un talento unico per dissiparli. Non posso dimenticare le tante domeniche d’inverno a Brera, nel porto sicuro di un bar dove il thè veniva servito con più fettine di limone, il cucchiaino era integro, il bagno discretamente posizionato. Ci voleva il limone per sciogliere la dose e un cucchiaino sano, visto che in molti bar erano stati bucati, proprio per renderli inutilizzabili. Il mio aspetto di bravo ragazzo di famiglia cattolica osservante, orfano di padre, caricato di pesanti responsabilità dall’adolescenza, in un certo modo garantiva che la lunga visita in bagno fosse innocente, almeno così mi piaceva pensare per tranquillizzarmi. Altre domeniche prendevano tutta un’altra strada, verso una piazza molto periferica, dopo aver sfilato dal comò, sotto gli occhi comprensivi di mia mamma, una banconota che avrebbe pagato il taxi andata e ritorno e qualcosa in più. In quel tempo, G. viveva in un appartamento di proprietà di un cugino, ignaro di tutto. Scostando le tende, l'imponente Arco della Pace, landmark di una zona che sarebbe poi diventata un nuovo centro della movida milanese, si poteva quasi toccare con un dito. Passavamo insieme anche lunghi pomeriggi e serate e nottate nella casa di un altro amico, della sua compagna e della loro bambina. Grazie al cielo, loro sono atterrate sane e salve su un altro pianeta. Non il nostro amico, avvolto nel fuoco, suicida nel porto di Ancona, decenni prima che il Covid portasse via G. Ricordo bene di averlo perso di vista dopo quella serata passata nella casa di un figlio di Gian Carlo Pajetta, uno dei pochi che nel ruolo di dirigente comunista aveva conservato i suoi lati umani: passione, intelligenza, gusto per le battute sarcastiche, un uomo in grado di rendere potabili anche le soporifere trasmissioni di Tribuna Politica. Li ascoltavo rievocare una lunga cavalcata verso Mazar-i Sharif, fare la conta di quelli che erano tornati per così dire dall’esilio, dopo mesi o per qualcuno anni. L’invasione russa in Afghanistan e l’avvento al potere dell’ayatollah Komeyni in Iran avevano reso impossibile seguire le nostre orme sul cammino del Grande Viaggio. A fine serata, fummo interrotti dalla telefonata da Parigi della compagna del nostro ospite. Trovai singolare, quasi fuori posto, che lei lavorasse per Club Med, ma non si capiva quale ruolo recitasse nell’industria del turismo. E dopotutto: “Un soggiorno in un villaggio del Club Med può rivelarsi un'esperienza indimenticabile. Mentre ci si allontana lentamente dalla riva, in una notte di mare calmo, su una barca a remi, dopo averlo dato alle fiamme”. A volte mi chiedo dove G. abbia trovato il coraggio e la pazienza per lavorare a Milano quindici anni filati in una compagnia aerea, mantenere una famiglia, due figlie, costruirsi una pensione più che d’oro, almeno per gli standard dell’isola nella quale era approdato e dove avrebbe aggiunto altri figli e figlie al conteggio, un totale di cinque o sei alla fine. Ho cercato e ritrovato uno degli ultimi scambi di messaggi. “Andava tutto bene al lavoro. Il pericolo erano le sedute alcoliche dopolavoro. Pane nero, caviale, cetriolini, vodka, canti tradizionali e pianti. Mi sentivo intrappolato nell’alcool, perdevo colpi e ho deciso di partire. Un racconto ricorrente nel dopolavoro era quello del bicchiere della staffa che in realtà sono tre. Il primo quando il cosacco parte per la guerra, monta a cavallo e appunto infila il piede nella staffa. Il secondo quando raggiunta la collina (i villaggi cosacchi erano sempre costruiti negli avvallamenti) si volta per un ultimo saluto, il terzo quando scompare all’orizzonte”.