Scrivo ancora su una macchina portatile. Fra
di noi, la crema dei creativi, della quale sono con sorpresa parte, con
i nostri contratti senza cartellini e restrizioni (“Il giorno più
bello della settimana? Il lunedì. Mi alzo e vedo la gente che va
a lavorare” Johnny Rotten), i freelance, lo smart working prima
che lo inventassero, si usava strappare con destrezza il lembo superiore
del foglio A4 sul quale avevamo battuto il nostro titolo e passarlo dall’altro
lato della scrivania al collega art director che, dopo più o meno
approfondite riflessioni, aveva il compito di abbinarlo a un’immagine
o gettarlo appallottolato nel cestino, non prima di suggerire una o più
controproposte. Ricordo i due grandi tabelloni di sughero coperti da panno
nero alle nostre spalle.Di fronte a me, spiccava una copertina dell’Economist
con il ritratto di Gorbaciov agli esordi come Segretario Generale del
Pcus. Portava un titolo che diceva poco a chi seguiva poco l’attualità,
a chi ignorava la novità della perestroika. Traducendo a memoria,
c’era scritto qualcosa tipo “Davvero gli faranno fare quello
che dicono che vogliono fargli fare?”. Sulla mia scrivania, c’è
invece una copia di Life, sempre del luglio 1985, e qui il grande titolo
del magazine, in cubitali lettere rosse, mette in guardia contro un pericolo
che ormai non riguarda più solo una precisa minoranza: Now no one
is safe from Aids. Trentacinque anni dopo sarebbe stato perfetto, sostituendo
l’ultima parola. Now no one is safe from Covid. Faremo mai davvero
i conti un giorno, con questi mesi, questi anni di pandemia? Il 25 aprile,
in un mini video su Youtube, un esiguo drappello di ragazzi si muove disordinatamente
lungo le sponde del Naviglio, senza bandiere, senza slogan, quasi di corsa.
Tutto il resto tace. Restate a casa, uscite con la giustificazione, ma
per non più di duecento metri. Pietro Mennea li aveva bruciati
in meno di venti secondi, quei duecento metri. Giorgio Agamben parte parlando
di semplice influenza, ma subito riaggiusta il tiro. Spende parole amare
per un Papa di nome Francesco, come il Santo che va incontro al lebbroso,
solitario in preghiera in una spettrale Piazza San Pietro. Non era che
l’inizio. Dovevano arrivare i consigli dei medici virologi in aperta
contraddizione, le stanze del Covid, gli ospedali al collasso, le indicazioni
su dove prender posto in auto, come stare a tavola (quanti nipoti alla
volta per ogni nonno?), le vaccinazioni e i loro imprevedibili effetti
collaterali, i no vax in corteo. La sostanziale impotenza della scienza.
Un pomeriggio invernale, un violento temporale scoppia nel borgo dove
vivo ormai da cinque anni. Me li trovo davanti all’uscita dal bosco,
i fulmini che squarciano il cielo. Continuo a camminare senza timore.
Sono giorni che accarezzo l’idea della pioggia di meteoriti sugli
uffici per i quali collaboro a distanza, la fine del mondo, la mia fine.
I comunicati del governo come bollettini di guerra, il conteggio delle
vittime giorno dopo giorno, l’impatto devastante sulla vita quotidiana
e sulle economie del mondo intero, mi riportano indietro nel tempo, nel
vortice delle ansie giovanili. Devo uscirne vivo, non posso uscirne vivo.
Vivrò. “Mai di domenica” è un film greco del
1960, memorabile per l’istrionica interpretazione di Melina Mercouri
nei panni della prostituta Ilya. Nella taverna affollata e fumosa, gli
avventori pregano Ilya di raccontare le trame delle grandi tragedie greche.
E la sua versione ha sempre lo stesso lieto fine: ”E poi fecero
pace e andarono tutti alla spiaggia!”. Il tanto atteso esodo dalla
tragedia del coronavirus non è stato anche una rimozione, una fuga
dalla memoria? Libere, liberi, mamme e bambini, tra abbracci e bacini,
con le creme e i giochini, sulla stuoia di vimini, sulla spiaggia di Rimini,
sopra un telo in cotone, sotto il sole, sotto il sole di Riccione. |