Piú di una ventina di anni fa, in molte
zone di Milano si captava perfettamente il segnale della TV della Svizzera
Italiana. Un lunedì sera siamo capitati per caso sul primo documentario
di una serie che sarebbe continuata a lungo. Eravamo soli sul divano,
io e Bibo ( cosi l'ho chiamata da subito, adottando il nomignolo affettuoso
utilizzato da suo figlio che aveva meno di cinque anni quando ci siamo
incontrati ). Non in anticipo sui tempi, il tema del primo documentario
era quello dell’alimentazione. La differenza la faceva l’approccio,
una spietatata denuncia che non sarebbe stata ammessa su un canale televisivo
italiano. Si cominciava con scarti di carne che venivano magicamente accostati
l’uno all’altro con una tecnologia che permetteva il formarsi
di sottili e invitanti venature di grasso, rendendo il tutto perfettamente
credibile. Più avanti si potevano vedere le fasi della produzione
dei gamberetti in Thailandia. La buca e la pozza d’acqua strappata
alla terra fertile, resa per sempre inutilizzabile dalla quantità
di sostanze introdotte nello stagno per accelerare la crescità,
per finire con gli antibiotici. Subito a fianco, abbandonata la prima,
un’altra buca veniva aperta, un’altra pozza grigiastra deturpava
la campagna. Ogni lunedì, non mancavamo all’appuntamento.
Ricordo le lunghe confessioni e le vite deragliate dei militari del contingente
olandese che avrebbe dovuto proteggere l’area nella quale avvenne
il massacro di Srebenica, poi definito genocidio dalla Corte internazionale
di giustizia. E ancora il viaggio di un fotografo all’interno della
smisurata Cina. Le madri che per lavoro lasciano i figli a migliaia di
chilometri di distanza per rivederli dopo un anno o più, il minatore
che affonda il viso in un secchio d’acqua di sorgente che diventa
subito torbida come se qualcuno avesse versato dentro un bicchiere di
nero di seppia. Ma un ricordo indelebile lo hanno lasciato i lavori firmati
da Yoav Shamir, israeliano di Tel Aviv che non a caso ha svolto il servizio
militare nei territori occupati. Flipping out racconta le storie
di ragazzi e ragazze che approfittano di una specie di liquidazione prevista
dall’esercito a fine leva per rifugiarsi nell’India più
verde e nelle droghe più o meno pesanti, fino al punto da rendere
necessario il sostegno di psicologi dell’esercito appositamente
addestrati. Nei casi più gravi, un aereo militare li riporta a
casa. Davvero indimenticabile tra tutti è Checkpoint,
sempre di Yoav Shamir. Documenta il quotidiano incubo vissuto dai cittadini
palestinesi e di riflesso anche dai giovani soldati israeliani, chiamati
a filtrare le persone una ad una, dalle prime luci dell’alba fino
a notte fonda, quasi a scoraggiare ogni tentativo di passaggio. Preghiere
insistite o disperate non vengono ascoltate quando vige il coprifuoco,
anche se si tratta di raggiungere un anziano padre morente o di accompagnare
moglie e figlio in ospedale. Non si può non intuire la paura dei
giovani militari di attentati assai improbabili. “I terroristi non
passano dai checkpoint!” urla un uomo in una delle mille code che
si formano, sotto il sole o sotto la pioggia incessante, rallentate dal
controllo scrupoloso dei permessi. Sono ragazzi alle prime armi, la gran
parte dei militari, attenti a rispettare scrupolosamente gli ordini ricevuti,
in qualche caso orgogliosi del loro ruolo e della loro inflessibilità.
“Quando arrivano i palestinesi, comincia il nostro show!”.
La comparsa di un pastore come garanzia per il passaggio di uno scuolabus
più volte fermato, apre a un imprevisto cambio d’atmosfera.
“I bambini devono passare, fermarli così è una cosa
triste”. “E lei non è triste per me che devo stare
qui?”, risponde il giovane soldato con un sorriso. Alla fine si
faranno fotografare insieme, senza armi, giubbotti e senza caschi di mezzo,
per ricordare quell'incontro cosi particolare. Non la scienza, non la
tecnica, non la cultura, non la bellezza, non la follia, non la saggezza:
l'umanità salverà l'umanità. Ci sono voluti due anni
per raccogliere il materiale che sembra a tratti girato all’insaputa
dei protagonisti e forse in piccola parte lo è. Invidio chi ha
opinioni precise e definitive su questa come su altre tragedie. Forse
perché, dopo dieci anni, non posso dire di avere le idee del tutto
chiare su un’altra vicenda che in fondo mi coinvolge da molto vicino,
vivendo in un piccolo borgo di confine dove la minoranza slovena è
maggioranza e al limitare del bosco sorge il quartiere delle case per
i profughi istriani. La storia! Leggila e piangi! L’ha scritto Kurt
Vonnegut, prigioniero alleato a Dresda, vivo perché aveva trovato
rifugio in una grotta sotto il mattatoio, mentre la città veniva
bombardata fino ad essere rasa al suolo e diventare tomba per decine e
decine di migliaia di uomini, donne e bambini. |