IN EXTREMIS
 
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SIPARIO APPENDICE POSTFAZIONE ANTEPRIMA
Luglio 1993
Ho letto Tristi Tropici a Zante, in una casa prossima alla spiaggia di Gerakas, dove all’alba si schiudono le uova delle tartarughe Caretta Caretta e tutte insieme le piccole, tracciando binari nella sabbia, raggiungono l'acqua. Nei lunghi pomeriggi estivi la piccola, tre anni compiuti da poco, riposava dopo un’intensa mattinata al mare. Eravamo immersi nel sole, in una natura entusiasta di stupirci, nel silenzio rotto soltanto dalle cicale e a notte fonda dalle urla di giovani in gran parte inglesi, periferici e proletari, di ritorno dall’unica discoteca. Quando un amico mi parlò in una mail del suo amore esclusivo per i gatti, gli feci notare che nelle ultime righe del saggio e memoriale di Lévi-Strauss, proprio un gatto diventa protagonista di un magico momento di tenerezza e complicità. Scaricai il libro e gli inviai quell’ultima pagina. Ma nella stessa mail, avevo allegato un secondo testo, quello del noto aforisma che chiude la seconda parte di Minima Moralia: Sur l’eau. F.H, grafico e art director con il quale ho condiviso le ore più gradevoli nelle agenzie di pubblicità, d’estate si trasferisce in un piccolo chalet sul lago di Brienz con vista gratuita sulla Jungfrau. Decisi di inviare anche a lui l’aforisma, naturalmente in tedesco, per semplificare una lettura non del tutto agevole. Tutto questo girare in tondo ha un senso: preparare a una scoperta assolutamente inaspettata. Come scrive Steiner, parlando del canone d’eccellenza del padre: “davanti a un Omero, a un Goethe, a un Beethoven, i minori sono proprio minori”. E nessuno, con tutta la libertà che si vuole concedere alle personali opinioni, potrebbe collocare Lévi-Strauss e Adorno tra i minori. “Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo – questo tenue arco che ci lega all’inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all’uomo l’unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere l’impulso che lo costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà; in cui esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà; possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste – addio selvaggi! addio viaggi! – durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta d’interrompere il suo lavoro da alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che essa fu e continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto.” Questo è Lévi-Strauss. “Forse la vera società proverà disgusto dell'espansione e lascerà liberamente inutilizzate certe possibilità, invece di precipitarsi, sotto un folle assillo, alla conquista delle stelle. Ad un'umanità ignara dell'indigenza balenerà qualcosa della follia e dell'inutilità di tutti i provvedimenti che erano stati presi per sfuggire all'indigenza, e che, con la ricchezza, la riproducevano su più vasta scala. Lo stesso godimento sarebbe toccato da questa trasformazione, dal momento che il suo schema attuale è inseparabile dal darsi da fare, pianificare, ottenere quel che si vuole e sottomettere gli altri. "Rien faire comme une bete", giacere sull'acqua e guardare tranquillamente il cielo, "essere e nient'altro, senz'altra determinazione e realizzazione", potrebbero sostituire processo, azione e compimento, e adempiere così sul serio alla promessa della logica dialettica, di sfociare nella propria origine. Tra i concetti astratti, nessuno si avvicina all'utopia realizzata più di quello della pace perpetua”. Questo è Adorno.
L’idea che due giganti, durante o poco dopo una catastrofica guerra mondiale, l'atrocità di una bomba atomica, l’orrore dei lager, le persecuzioni, la fuga negli Stati Uniti per trovare un rifugio ( non basterà certo a Adorno utilizzare il cognome non ebreo della madre per essere al sicuro ), arrivino a riflessioni così ricche di assonanze, accumunate dalla stessa tensione utopica e profetica, alla certezza che le grandi speranze sul destino dell’umanità restino in qualche modo verosimili, è di conforto nella miseria della nostra attualità. Non si può uscire da questa doppia lettura senza provare una forte commozione, non soltanto cerebrale.